DAGLI ATTI DEL CONCILIO
ECUMENICO VATICANO II
Notificazioni fatte dall'Ecc.mo Segretario generale nella congregazione generale 123.a
È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema sulla Chiesa e sottoposto alla votazione. La commissione dottrinale ha dato al quesito questa risposta: « Come è di per sé evidente, il testo del Concilio deve sempre essere interpretato secondo le regole generali da tutti conosciute ». In pari tempo la commissione dottrinale rimanda alla sua dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui trascriviamo il testo:
«Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali.
«Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica».
Per mandato dell'autorità superiore viene comunicata ai Padri una nota esplicativa previa circa i « modi » concernenti il capo terzo dello schema sulla Chiesa. La dottrina esposta nello stesso capo terzo deve essere spiegata e compresa secondo lo spirito e la sentenza di questa nota.
16 novembre 1964
NOTA ESPLICATIVA PREVIA
La commissione ha stabilito di premettere all'esame dei "modi" le seguenti osservazioni generali:
1) "Collegio" non si intende in senso « strettamente giuridico », cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandata la loro potestà al loro presidente, ma di un gruppo stabile, la cui struttura e autorità deve essere dedotta dalla Rivelazione. Perciò nella risposta al modus 12 si dice esplicitamente dei Dodici che il Signore li costituì « a modo di collegio o "gruppo" (coetus) stabile ». Cfr. anche il modus 53, c. Per la stessa ragione, per il collegio dei vescovi si usano con frequenza anche le parole "ordine" (ordo) o "corpo" (corpus). Il parallelismo fra Pietro e gli altri apostoli da una parte, e il sommo Pontefice e i vescovi dall'altra, non implica la trasmissione della potestà straordinaria degli apostoli ai loro successori, né, com'è chiaro, "uguaglianza" (aequalitatem) tra il capo e le membra del collegio, ma solo "proporzionalità" (proportionalitatem) fra la prima relazione (Pietro apostoli) e l'altra (papa vescovi). Perciò la commissione ha stabilito di scrivere nel n. 22 non "medesimo" (eodem) ma "pari" modo. Cfr. modus 57.
2) Si diventa "membro del collegio" in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le membra. Cfr. n. 22.
Nella consacrazione è data una "ontologica" partecipazione ai "sacri uffici", come indubbiamente consta dalla tradizione, anche liturgica. Volutamente è usata la parola "uffici" (munerum), e non "potestà" (potestatum), perché quest'ultima voce potrebbe essere intesa di potestà esercitabile di fatto (ad actum expedita). Ma perché si abbia tale potestà esercitabile di fatto, deve intervenire la "determinazione" canonica o "giuridica" (iuridica determinatio) da parte dell'autorità gerarchica. E questa determinazione della potestà può consistere nella concessione di un particolare ufficio o nell'assegnazione dei sudditi, ed è concessa secondo le norme approvate dalla suprema autorità. Una siffatta ulteriore norma è richiesta "dalla natura delle cose", trattandosi di uffici, che devono essere esercitati da "più soggetti", che per volontà di Cristo cooperano in modo gerarchico. È evidente che questa "comunione" è stata applicata nella vita della Chiesa secondo le circostanze dei tempi, prima di essere per così dire codificata "nel diritto". Perciò è detto espressamente che è richiesta la comunione "gerarchica" col capo della Chiesa e con le membra. "Comunione" è un concetto tenuto in grande onore nella Chiesa antica (ed anche oggi, specialmente in Oriente). Per essa non si intende un certo vago "sentimento", ma una "realtà organica", che richiede una forma giuridica e che è allo stesso tempo animata dalla carità. La commissione quindi, quasi d'unanime consenso, stabilì che si scrivesse: « nella comunione "gerarchica" ». Cfr. Mod. 40 ed anche quanto è detto della "missione canonica", sotto il n. 24. I documenti dei recenti romani Pontefici circa la giurisdizione dei vescovi vanno interpretati come attinenti questa necessaria determinazione delle potestà.
3) Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto essere: «anche esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale ». Ciò va necessariamente ammesso, per non porre in pericolo la pienezza della potestà del romano Pontefice. Infatti il collegio necessariamente e sempre si intende con il suo capo, "il quale nel collegio conserva integro l'ufficio di vicario di Cristo e pastore della Chiesa universale". In altre parole: la distinzione non è tra il romano Pontefice e i vescovi presi insieme, ma tra il romano Pontefice separatamente e il romano Pontefice insieme con i vescovi. E siccome il romano Pontefice e il "capo" del collegio, può da solo fare alcuni atti che non competono in nessun modo ai vescovi, come convocare e dirigere il collegio, approvare le norme dell'azione, ecc. Cfr. Modo 81. Il sommo Pontefice, cui è affidata la cura di tutto il gregge di Cristo, giudica e determina, secondo le necessità della Chiesa che variano nel corso dei secoli, il modo col quale questa cura deve essere attuata, sia in modo personale, sia in modo collegiale. Il romano Pontefice nell'ordinare, promuovere, approvare l'esercizio collegiale, procede secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa.
4) Il sommo Pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può esercitare la propria potestà in ogni tempo a sua discrezione, come è richiesto dallo stesso suo ufficio. Ma il collegio, pur esistendo sempre, non per questo permanentemente agisce con azione "strettamente" collegiale, come appare dalla tradizione della Chiesa. In altre parole: Non sempre è «in pieno esercizio», anzi non agisce con atto strettamente collegiale se non ad intervalli e "col consenso del capo". Si dice « col consenso del capo », perché non si pensi a una "dipendenza", come nei confronti di chi è "estraneo"; il termine "consenso" richiama, al contrario, la "comunione" tra il capo e le membra e implica la necessità dell'atto", il quale propriamente compete al capo. La cosa è esplicitamente affermata nel n. 22 ed è ivi spiegata. La formula negativa "se non" (nonnisi) comprende tutti i casi, per cui è evidente che le "norme" approvate dalla suprema autorità devono sempre essere osservate. Cfr. modus 84.
Dovunque appare che si tratta di "unione" dei vescovi "col loro capo", e mai di azione dei vescovi "indipendentemente" dal papa. In tal caso, infatti, venendo a mancare l'azione del capo, i vescovi non possono agire come collegio, come appare dalla nozione di "collegio". Questa gerarchica comunione di tutti i vescovi col sommo Pontefice è certamente abituale nella tradizione.
N. B.: Senza la comunione gerarchica l'ufficio sacramentale ontologico, che si deve distinguere dall'aspetto canonico giuridico, "non può" essere esercitato. La commissione ha pensato bene di non dover entrare in questioni di "liceità" e "validità", le quali sono lasciate alla discussione dei teologi, specialmente per ciò che riguarda la potestà che di fatto è esercitata presso gli Orientali separati e che viene spiegata in modi diversi.
+ PERICLE FELICI
Arcivescovo tit. di Samosata
Segretario generale del Concilio