Roma, 16 settembre 2019
Testo integrale che il cardinale vicario Angelo De Donatis ha pronunciato, lunedì 16 settembre, nella basilica di San Giovanni in Laterano, in occasione del primo dei quattro incontri di inizio anno pastorale. (Fonte: www.diocesidiroma.it)
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1.
Grazie a don Paolo per questo invito a “non temere”, ispirato ai capitoli 3 e 4 dell’Esodo, lì dove Dio aiuta Mosè a non lasciarsi bloccare dalle sue paure e a cominciare la sua missione in mezzo al popolo…
Ho chiesto a don Paolo di offrirci una sua riflessione su questo, perché quando qualche giorno fa mi sono domandato: come hanno reagito molti preti e laici alla presentazione delle linee di cammino pastorale 2019-2020 (presentazione fatta il 24 giugno scorso)? Mi sono detto: senza dubbio, come nell’Esodo, la reazione più diffusa è il timore. Timore del nuovo e del cambiamento, del cercare e andare incontro a chi è lontano dalle nostre comunità, timore di attraversare un terreno mai solcato e di non essere all’altezza di questa impresa… E così, per usare l’immagine dell’auto ferma, rimaniamo impantanati a guardare la ruota senza deciderci a cambiarla e ripartire.
L’Esodo è davvero il nostro paradigma! I timori di Mosè sono i nostri timori. Eppure immagino che Mosè, esaurite le obiezioni, con nel petto un po’ del fuoco del Roveto Ardente, scenda dall’Oreb, silenzioso e pensoso, ma deciso ad abitare nuovamente in mezzo al suo popolo. Questa volta, con il cuore.
La sera di Pentecoste, a piazza san Pietro, dalle labbra del nostro Vescovo Papa Francesco, abbiamo accolto l’invito a portare con noi il fuoco dello Spirito per buttarci nella marea un po’ caotica della nostra città, per incontrare volti, stringere mani, ascoltare il grido; e nel dinamismo di queste relazioni, annunciare il Vangelo, con le parole e con le opere. A piazza san Pietro, mentre il sole accecante tramontava, il Signore dal Roveto Ardente ha acceso qualcosa dentro di noi.
Questa sera, allora, siamo proprio come Mosè che scende dal monte: silenziosi, pensosi, con molti timori non ancora sopiti, ma determinati a fare quello che il Signore ci chiede.
Vi ricordate? Al termine della presentazione del 24 giugno scorso, vi ho lasciato due consegne: rileggere Evangelii Nuntiandi di San Paolo VI e prepararci all’ascolto della città con l’esercizio del silenzio. L’abbiamo fatto anche questa sera, questo esercizio, davanti alla presenza eucaristica del Signore. Lo abbia contemplato mentre, da adolescente, nello stupore generale rivendica il diritto di compiere degli “strappi” pur di fare la volontà del Padre; lo abbiamo udito mentre va dritto per la sua strada, anche se tutti lo considerano uno “fuori di sé”. Nel silenzio abbiamo compreso che il Signore è fatto così: quando saremmo tentati di sederci, ci rialza e ci mette in cammino. Ci chiede di “scomodarci” perché Lui per primo si è “scomodato” per noi e di avere un po’ di coraggiosa ed evangelica follia. Ricordiamoci san Paolo ai Corinti: la follia dei santi, che è la sapienza di Dio, si chiama croce (1Cor 1-2). Papa Benedetto ci ha detto che il Signore spesso ci fa attraversare deserti, per portarci “oltre” le mete raggiunte, così che comprendiamo che nessuna meta posseduta ha il nome di “Dio”, ma che Egli è “oltre”.
Il silenzio è la condizione previa di ogni ascolto: della Parola di Dio e della parola umana. Si tratta far tacere ogni rumore, interiore ed esteriore, per accogliere una parola che è “altro-da-me”. Ritorneremo su questo punto, questa sera. Come Mosè, scendiamo dal monte, con nel cuore la scia del silenzio lasciato dall’incontro con Jhwh, per ascoltare il grido dei nostri fratelli e contemplare la Sua presenza divina nel cuore della città.
Continuiamo tutto l’anno a fare questo esercizio di silenzio. Da soli o negli incontri comunitari, nei presbitèri o nell’equipe pastorali, il silenzio e la preghiera custodiranno il fuoco dell’Oreb, dello Spirito Santo, dentro di noi.
2.
In questa basilica, questa sera vi guardo con stupore, misto a profonda tenerezza. Ho qui davanti la Chiesa di Roma, la Chiesa del Papa. Voi sapete che negli anni passati il programma pastorale era presentato non a giugno, ma a settembre, in due incontri differenti: uno al mattino per i presbìteri e uno serale per tutti gli altri. Quest’anno ho voluto che fossimo tutti insieme: presbiteri, diaconi, religiosi e religiose, laici dell’equipe pastorali e dei consigli pastorali. È presente qui stasera tutta la Chiesa in stato di sinodo: cioè, pronta a camminare insieme. Il 24 giugno vi ho detto:
«Abbiamo “la necessità di un cammino sinodale. Questo significa un processo in cui si permette a Dio di parlarci. Ognuno si converte all’atteggiamento della povertà di cuore: “non so tutto, non ho capito tutto, non ho in tasca la soluzione per tutti i problemi”. Poi ci si ascolta reciprocamente ed insieme si ascolta la realtà degli uomini e delle donne della nostra città, perché anche lì Dio agisce e ci parla. Infine sotto l’ispirazione dello Spirito Santo si progettano e realizzano nuove vie di evangelizzazione, condividendo quanto ognuno ha vissuto in questi anni e cosa sogna per il tempo a venire, chiedendosi cosa conservare, cosa eliminare, cosa cambiare».
Ecco in breve il cammino dei sette anni. Un cammino di conversione e rinnovamento missionario. Ed è un percorso che si fa tutti insieme, quindi in un perenne stato sinodale, dove ci si ascolta reciprocamente, si ascolta chi non fa parte della comunità cristiana e insieme si ascolta il Signore.
Abbiamo fatto, come sapete, la scelta di mettere a servizio di questo processo sinodale l’equipe pastorale, composta da presbiteri e alcuni laici, massimo dodici. Si tratta di una figura pastorale ben precisa, distinta dal consiglio pastorale. Quest’ultimo infatti è per lo più strutturato con la presenza di rappresentanti di tutti i gruppi parrocchiali e il suo compito, come ci ha ricordato don Paolo, è quello del servizio del “dono del consiglio”, cioè del discernimento sapiente. L’equipe pastorale invece può essere formata anche solo dai preti e tre-cinque laici, ma il suo compito è animare dal di dentro la comunità parrocchiale e coinvolgerla nel cammino di rinnovamento pastorale dei sette anni. L’equipe quindi è il cuore, l’anima, del processo e punta a motivare e accompagnare l’opera di ascolto di tutta la comunità, custodendo il “fuoco”, cioè l’ispirazione dello Spirito Santo che svela e sostiene il senso del cammino, e presentando i passi da fare. Suo interlocutore privilegiato è il consiglio pastorale ma in sostanza tutti gli operatori pastorali. Sono loro, cioè siamo tutti noi, gli “attori” dell’ascolto contemplativo! Se ci pensate bene, questo ascolto fa parte integrante e imprescindibile del processo dell’evangelizzazione. Infatti, se l’evangelizzazione è quell’annuncio della fede che comunica la buona notizia della benedizione di Dio sulla “tua vita concreta”, della salvezza e della misericordia che Gesù è venuto a portare “anche per te”, il discepolo-missionario che voglia servire l’azione di Dio cercherà di ascoltare la vita degli altri per saper declinare questo annuncio in modo che parli davvero al cuore dei suoi fratelli. Nel vangelo ci viene detto che Gesù sapeva bene ciò che c’era nel cuore dei suoi interlocutori: non solo per un dono soprannaturale, ma anche perché egli, fin dall’inizio di ogni incontro e di ogni colloquio, accoglieva e creava spazio dentro di sè per tutte le persone, per le loro vite, per i loro drammi… senza anteporre nulla a questa attenzione totale al volto e alla voce dell’altro. Così siamo chiamati a fare anche noi.
È necessario quindi che l’equipe si riunisca frequentemente, in incontri “ufficiali” ed informali, per decidere come progettare e realizzare l’ascolto dei giovani, delle famiglie e dei poveri del quartiere. Scrive monsignor Luciano Monari, vescovo emerito di Brescia, nell’introduzione ad un libro molto interessante di Ugo Borghello (“Comunione carismatica in parrocchia”, ed Cantagalli 2015): “Si può appartenere ad una comunità cristiana in diversi modi, con legami più o meno solidi; ma se vogliamo che una comunità sia viva bisogna che ci sia, al suo centro, un nucleo sufficientemente significativo di persone che hanno scelto l’appartenenza alla comunità come origine prima della loro identità e quindi della loro attività missionaria. Questo tipo di appartenenza presuppone la radicalità della scelta di fede considerata come orizzonte di vita all’interno del quale si collocano e prendono significato tutte le altre scelte ed appartenenze” (pp.5-8). Ecco, l’equipe pastorale deve avere questa identità forte, e cercare di coinvolgere nella missione evangelizzatrice tutta la comunità parrocchiale. “Custodi del senso, custodi della comunione ecclesiale, custodi del cammino”, come ho scritto nella lettera indirizzata a voi parroci.
Questo processo sinodale, nella misura in cui lo sarà davvero, porterà con sé molti frutti. Sono i regali più belli. In un incontro vissuto quest’inverno con il Consiglio presbiterale, ce ne sono stati elencati quattro, che mi piace sottolineare per voi.
1. Qualcosa cambierà a livello dei laici: passeranno dal sentirsi dei “dipendenti” della parrocchia, mano d’opera a buon mercato, a membri veri del popolo di Dio, capaci di pensiero e di iniziativa. Sperimenteranno la forza del loro battesimo, che li fa re, sacerdoti e profeti, e con l’unzione del senso della fede li rende capaci di testimoniare e contribuire a realizzare il regno di Dio, fuori dei confini parrocchiali
2. Qualcosa cambierà a livello dei sacerdoti, qualcosa che voi preti romani sentite con molta urgenza: essere meno degli organizzatori e gestori di immobili, per essere più padri. Quanto bisogno di paternità vera ha la gente! È uno dei segni dei tempi, che ci interpella profondamente
3. Le parrocchie e le varie comunità ecclesiali cambieranno: meno centralizzate e autoreferenziali, più policentriche e connesse tra di loro. Non frantumazione, ma comunione nella ricchezza delle espressioni e delle sensibilità, comunità grandi dove in maniera anche diversificata i cammini personali di fede sono accompagnati e sostenuti in appartenenze primarie di comunità più piccole ma dense di proposta evangelica
4. Cambierà anche la spiritualità: meno intimista, individualistica, meno new age, ma concreta, capace di dare senso alla vita, di sostanziare e dare motivi alla missione. Mi ha scritto una monaca della nostra città: “iperconnessione, corsa, fretta sono il grido dell’umanità che sta cercando dove posare il cuore!”. Possiamo offrire alle persone un percorso interiore che li aiuti a posare il capo sul petto del Signore.
3.
So che questa sera tra di noi “aleggia” una domanda: si, ma insomma, quest’anno, che dobbiamo fare? In realtà lo abbiamo già condiviso nell’incontro del 24 giugno. Le linee operative date prima dell’estate servono a permettere a tutti di farle oggetto di meditazione e di preghiera silenziosa, in un tempo sufficientemente lungo in cui ciascuno, magari nel riposo di luglio e di agosto, possa chiedersi: Signore, in che modi posso servire, insieme alla mia comunità, il regno di Dio in questo quartiere, obbedendo alla tua volontà?
Riprendete in mano il testo delle linee. Leggetelo insieme in parrocchia con attenzione: lì ci sono tutti i passaggi. Provate insieme a verificare se riescono a interpellare la vostra realtà ecclesiale e come viverle nella vostra concreta situazione parrocchiale: Roma è mille città, mille realtà diverse, e non tutto funziona alla stessa maniera dappertutto. Per questo c’è spazio per la creatività di ognuno. Nelle prossime serate qui in cattedrale non faremo delle conferenze programmatiche, ma vivremo delle esperienze esemplari di ascolto contemplativo: dei giovani, dei poveri e dei malati, delle famiglie. Non ci diremo cosa fare, non ci fermeremo alle parole, ma lo sperimenteremo insieme.
Questa sera, qui con voi, voglio solo invitarvi ad avere attenzione a quattro “snodi”. Aggiungerò poi un approfondimento su cosa significhi “ascoltare con il cuore”, in modo contemplativo.
• Un punto da pensare bene è come raggiungere le persone lì dove vivono per incontrarle e dialogare con loro. Non basta raccogliere storie di vita in maniera anonima (magari mettendo una cassetta postale in fondo alla chiesa!), ma cerchiamo di entrare in relazione con le persone. Oltre alle occasioni spontanee e informali ci sono quelle organizzate, e richiedono un po’ di fantasia.
• Non bisogna girare dappertutto con taccuino e penna, non siete intervistatori! L’incontro deve essere un vero volto a volto, un esercizio di ascolto fatto con il cuore. Provocate gli altri alla condivisione e alla confidenza: vi accorgerete di quante persone hanno desiderio di essere ascoltate! Quando venite in contatto con una storia di vita significativa (non importa se a lieto fine o no), custoditela dentro di voi come un regalo prezioso, meditatela nel silenzio davanti a Dio. Nell’intimo toglietevi i sandali della supponenza e del giudizio facile. Affidate a Dio chi incontrate, pregate per loro
• Quando poi vi riunirete con gli altri operatori pastorali e con l’equipe, condividete le storie. Questo è un momento fondamentale, da vivere insieme nella preghiera. Nel chiedervi cosa vivono i giovani, le famiglie, i poveri del vostro quartiere, provate ad esercitare quello che il Papa ha definito un ascolto o uno sguardo contemplativo: dov’è Dio in questa storia? Cosa sta facendo nella nostra e nella loro vita? Sono sicuro che da questo ascolto orante e silenzioso, emergerà una ricchezza straordinaria. Perché c’è di mezzo lo Spirito Santo. Ma ci ritorniamo subito dopo.
• Un quarto snodo a cui fare attenzione è la condivisione delle storie di vita con la comunità parrocchiale durante l’eucarestia domenicale. Evitando che si capisca che si sta alludendo concretamente a “quella persona”, si portano davanti a Dio e all’assemblea liturgica le gioie e i dolori di tutti. L’intercessione è un atto d’amore. Questi fratelli e sorelle per i quali preghiamo sono quelli che il Signore ci chiede di servire, perché possano sperimentare un po’ di più di speranza, di libertà, di vita. Quante preghiere dei fedeli, durante la Messa, sono così generiche e formali (lette nei foglietti stampati a livello nazionale) da non esprimere per niente le intenzioni contenute nei cuori dei fedeli! Invece queste preghiere avranno il sentore della carne viva del vostro quartiere. Sapranno di vita, finalmente!
Quest’ultima parte non è stata pronunciata dal cardinale vicario, ma ha rimandato alla lettura personale del discorso:
E ora entriamo più profondamente nell’ascolto con il cuore. Toccherò tre punti: ascoltare con il cuore – ascoltare con il cuore abitato dallo Spirito – ascoltare il cuore dell’altro, anch’sso abitato dallo Spirito
1. Prima di tutto: con che cosa ascoltiamo?
L’organo dell’ascolto non è l’orecchio ma il cuore. Ce lo suggerisce Maria che meditava e custodiva nel cuore tutto ciò che udiva (Lc 2,19). Il cuore nella Bibbia è il centro della persona, è tutta la sua interiorità: pensieri, sentimenti, volontà, coscienza, memoria… Il cuore dell’uomo è un abisso e lì è depositata tutta la nostra vita: ciò di cui siamo consapevoli e ciò di cui non siamo consapevoli. Noi ascoltiamo inevitabilmente con il cuore, cioè con tutto noi stessi, con tutto ciò che siamo e che abbiamo vissuto.
Questo però ci fa già intuire quale difficoltà possiamo incontrare quando decidiamo di ascoltare l’altro e ciò che ci è richiesto per poterlo fare davvero: dobbiamo fargli spazio dentro di noi, accoglierlo nel cuore, evitando di proiettare su di lui, di attribuire a lui, percezioni, sensazioni, intenzioni, valutazioni che in realtà sono solo nel “nostro” cuore. E’ un vero e proprio lavoro di ascesi: far tacere le mille voci che ci abitano per poter accogliere ed ascoltare davvero l’altro come “altro-da-me”.
Quanto è decisivo, per saper ascoltare, quest’atteggiamento ospitale del nostro cuore! Ed è essenziale avere una predisposizione d’animo di “simpatia” nei confronti dell’altro: accoglierlo nel cuore con un atteggiamento di benevolenza, perché è nostro fratello, preparandoci ad una relazione vera, alimentata dall’ascolto e dal dialogo reciproco.
In questo, il bagaglio di esperienze vissute che si è depositato nel nostro cuore, invece di essere un “elemento di disturbo” che altera l’ascolto proiettando sull’altro ciò che è solo “nostro”, può diventare il motivo che spinge ad ascoltare con benevolenza e simpatia: l’altro non è diverso da me, ma come me ha vissuto e vive gioie e tristezze, angosce e speranze. Abbiamo in comune la vita, l’umanità. Certo, alcune esperienze dolorose subìte, soprattutto se sono la conseguenza di inganno e cattiveria, possono alimentare la diffidenza e il pregiudizio nei confronti degli altri; ma se ho lasciato che il Signore consoli e guarisca il mio cuore, lo Spirito Santo mi ha liberato dal risentimento e ha forgiato dentro di me un cuore capace di compassione nei confronti delle sofferenze e delle miserie degli altri, dovunque si trovino e a qualunque realtà appartengano.
2. Il cuore abitato dallo Spirito
Ma la riflessione su “con che cosa si ascolta” deve tener conto anche di un altro aspetto: nel cuore dell’uomo abita lo Spirito Santo, la presenza di Dio. Lo Spirito, che ci ricorda le parole di Gesù perché “prenderà del mio e ve lo annunzierà” (Gv 16,14-15), agisce nell’intimo del nostro cuore; per cui quando ascoltiamo la Parola di Dio, nella proclamazione liturgica o nella testimonianza dei fratelli, lo Spirito freme e conferma “come dal di dentro” che è proprio la Parola di Dio quella che ascoltiamo con le nostre orecchie. La Parola che ci raggiunge dall’esterno trova corrispondenza nella risonanza interiore suscitata dallo Spirito. Per lo più è il sentimento della gioia che accompagna l’ascolto della Parola di Dio: nella prima lettera i Tessalonicesi San Paolo scrive: “Avete seguito l’esempio del Signore e accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo” (1Ts 1,6). Tuttavia, quando il Signore ha bisogno di convertirci da una via di male nella quale ci siamo incamminati, lo Spirito fa risuonare la Parola dentro di noi suscitando turbamento, tristezza, pentimento.
Così comprendiamo che ascoltare con il cuore significa ascoltare nella potenza dello Spirito Santo. Sant’Agostino scriveva del Maestro interiore: il Cristo, Logos-Parola del Padre, grazie all’unzione dello Spirito, è colui che insegna nella cattedra del nostro cuore la verità di Dio e dell’uomo: «Ti sarà maestro solo colui che è il Maestro interiore dell’uomo interiore, il quale nella tua mente ti mostra che è vero ciò che viene insegnato» (Lettera 266).
3. Ascoltare con il cuore le vite degli altri, nel cuore agisce lo Spirito
Dio, che ha un cuore immenso nel quale c’è posto per ciascun uomo, ha ascoltato il grido degli abitanti di Roma e ha mandato noi in mezzo alla città per fare “esercizio di ascolto”, perché quel grido spesso noi non vogliamo o non siamo in grado di udirlo.
La verità è che noi raramente ascoltiamo con il cuore. Per di più il nostro cuore è spesso stretto, non ospitale, non c’è spazio per le vite degli altri. Oppure crediamo di saper già ascoltare, ci diciamo che in fondo già sappiamo ciò che gli altri stanno gridando, che i lamenti degli abitanti della nostra città di Roma li abbiamo già uditi tante volte nell’autobus, tra colleghi di lavoro, al bar o in fila alla posta… Non c’è niente di interessante nelle esistenze degli altri, sono banali e vuote, spesso segnate da un tram-tram che rende noioso il loro e il nostro quotidiano.
Quanto è riduttivo e condizionato da pregiudizi questo modo di osservare la realtà! Dirò di più: è un modo di pensare da “discepoli-evangelizzatori atei”! Perché? Perché è un ascolto delle vite degli altri che rivela di non credere nel Signore Risorto e nella potenza dello Spirito Santo. È fatto da un cuore che non è consapevole di essere abitato dallo Spirito di Dio e che non crede che lo Spirito santo abiti il cuore dei fratelli. Non coglie neppure che la storia umana è guidata dallo Spirito. L’orizzonte è assolutamente piatto. Lo sguardo è irrimediabilmente ristretto, troppo concentrato in basso.
Invece il cuore contemplativo sa riconoscere con lucidità autenticamente spirituale la presenza e l’azione di Dio nelle vite degli altri e nella storia umana. Pensiamo a Maria: il Mistero di Dio nella storia è per il momento solo un bambino piccolissimo concepito nel suo grembo, eppure il suo cuore già esulta e vede delinearsi all’orizzonte il sovvertimento della società umana: “ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”.
Questo è avere un cuore contemplativo, questo è essere inabitati dallo Spirito! E solo questo cuore mariano sa ascoltare. Ella ascolta, “mette insieme” (sun-ballo) le parole udite dall’angelo, dai pastori e dai vecchi Simeone ed Anna, le medita nello Spirito Santo cogliendo il nesso che le lega, cioè l’opera di Dio, e le custodisce con amore nel suo cuore.
I piccoli, i poveri, meritano che noi li ascoltiamo così. Prendendoli sul serio, come fa Dio. E soprattutto riconoscendo la storia che Dio intesse con loro, a partire dalle loro esistenze solo apparentemente banali. Come lo Spirito freme e gioisce in noi quando ascoltiamo la Parola di Dio proclamata nella liturgia o meditata nella Scrittura, così il nostro cuore può riconoscere la Parola di Dio che si incarna nelle vite degli altri e costruisce cammini di santità.
Gli esempi possono essere tantissimi. Prendo in prestito l’elenco che Papa Francesco fa all’inizio di Gaudete et exsultate:
Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio (GeE 7)
Quando, in un momento di confidenza, l’altro ci racconta ciò che sta passando in questa fase della sua vita, e ci comunica i desideri per sé e per la sua famiglia, i suoi sogni e le sue speranze, la preoccupazione per il domani unita alla fiducia che i nodi si scioglieranno e che una porta si aprirà… non è questa una spinta che viene dallo Spirito Santo? Su che cosa si fonda questa fiducia se non nella forza dello Spirito, caparra del futuro che ci attende? Quando un giovane si appassiona dei temi ecologici o di quelli sociali e li approfondisce, informandosi e confrontandosi con gli altri, e decide di dare il suo piccolo ma grande contributo, attraverso la condivisione delle idee, la affermazione dei principi giusti, avendo il coraggio di dire “a me nun me sta bene che no” e “nessuno deve essere lasciato indietro” (il quindicenne Simone di Torre Maura)… Che cosa c’è dietro questa bellissima ostinazione se non lo Spirito della verità, del regno di Dio che è amore, giustizia, pace? Quando una famiglia sperimenta che i loro nuovi vicini di casa vengono da un paese straniero, con tradizioni culturali e religiose differenti, ma che è profondamente arricchente imparare a conoscersi, a rispettarsi, ad aiutarsi, e che i pregiudizi vengono meno per lasciare lo spazio a ciò che accomuna… non è un anticipo di quel mondo nuovo che lo Spirito sta realizzando nel mondo, attraverso il parto e i gemiti della storia umana?
La nostra città è piena di persone e di famiglie che vivono le beatitudini, che ogni giorni lottano e si impegnano per il bene dei loro figli e per il futuro di tutti. E dai piccoli come Maria e Giuseppe, è dalle periferie umane come la Nazareth del Vangelo, che il Signore vuol far ripartire una nuova fase della vita della Chiesa e del mondo. A noi è chiesto di ascoltare il grido del dolore e del parto del mondo nuovo, di riconoscere la presenza di Dio e dello Spirito nella vita delle persone e della storia umana. Lì Dio agisce. Solo un cuore abitato dallo Spirito lo sa ascoltare e riconoscere.
Buon anno a tutti!